Boston Marathon – Il traguardo più incredibile

Non ho ancora realizzato bene che parole si possano usare per ordinare tutto quello che volteggia nella mia mente e nel mio cuore. Provo a scriverlo.

Provo a farvi vivere con me questa esperienza, il mio sogno, la mia Boston Marathon.

Ho sognato questa gara per anni, forse dalla mia prima maratona nel 2011. Leggevo le pagine di Correre, con il mio compagno e insieme sognavamo i luoghi da visitare di corsa, le gare da andare a fare. Dalle più esotiche, alle più celebri.

Spesso gli amici ci domandavano perchè non andavamo a correre la Maratona di New York.

Noi in realtà non avevamo tra le mete New York. Forse perchè siamo sempre stati un po’ snob, ma a noi piacevano le location con una storia dietro, magari meno gettonate. Andammo a Gerusalemme, a Roma, a Venezia.

Eppure io da quando lessi di Kathrine Switzer che nel ’67 a Boston corse la prima maratona come donna, sentii il desiderio di venire qui a correre la Boston Marathon.

In questo istante sono sdraiata nel letto di una stanza in affitto in un quartiere residenziale (povero) di Boston. Le gambe sono stanche, la testa è nel pallone. L’inguine è scorticato dai pantaloni.

La sola cosa che non mi duole sono i piedi. Questi piedi che ieri hanno corso per 42 chilometri e 195 metri sulle strade della Boston Marathon.

Ieri è stata una giornata incredibile, una giornata durata tantissimi mesi, quelli dell’attesa per la qualifica, quelli dell’allenamento, quei giorni a fare nulla ad aspettare di superare l’infortunio.

Ieri è stata la giornata più difficile, più terribile e insieme più stupefacente che potessi immaginare.

Ho sognato così tanto di partire da quella linea a Hopkinton, a 42 chilometri dal centro di Boston che ieri mattina non volevo credere che fosse così terribile.

Dal cielo, bianco di nubi e nebbia, secchiate d’acqua si rovesciavano su di noi. Il vento, gelido, proveniva a raffiche da tutte le direzioni. Temperatura: tra i 4 e i 6 grandi centigradi. Percepita: -3°.

Dopo un’ora sui 600 Scuolabus che ci portavano in partenza, tra spifferi e umidità, coperti da sacchetti dell’immondizia e abiti vecchi, arriviamo ai tendoni di partenza, dove il prato si era trasformato in fango spesso e fradicio.

Due ore di attesa seduti per terra e poi mezz’ora sotto l’acqua verso la griglia. Guardavo i miei piedi avvolti nelle mie FloatRide quasi nuove: incrostazioni di fango fino ai lacci mi facevano immergere in un’atmosfera trail. Immaginavo le mie dita e la pelle accartocciata dalle ore di acqua. E meditavo su quante vesciche avrei avuto alla fine. I leggings iniziavano ad essere zuppi ancor prima della partenza.

Intorno a me alcuni temerari in canotta mi facevano pensare ai turisti inglesi ubriachi sulle piste da sci. Io sono partita (e arrivata) con maglia termica e giacca.

Allo start la mente era sgombra. Per i primi sei chilometri non ho pensato a nulla, solo alla fortuna di esserci. La quantità di donne a correre al mio fianco mi ha dato un bello scorcio sul futuro del running.

Al decimo chilometro stavo andando fortissimo. Forse troppo. Ma non sentivo nulla, nemmeno il rumore dei passi. Solo il desiderio di arrivare il prima possibile.

Al quindicesimo chilometro le natiche hanno perso sensibilità e i primi brividi mi hanno spaventata.

Alla mezza maratona ero già surgelata. Ho seguito una coppia per qualche chilometro, dietro di loro a proteggermi dal vento. Le gambe di lei erano viola dal freddo.

Gli scrosci d’acqua potenti mi facevano paura. Sembrava grandinasse a tratti.

Da quando eravamo partiti non c’era ancora stato un varco nel tifo ai bordi della strada. malgrado il freddo. Malgrado il tempo. Alla sommità di una delle decine di colline sul percorso un Babbo Natale con tanto di Elfo al seguito dava il benvenuto al Polo Nord.

Davanti ad una delle centinaia di case in legno con patio e sedia a sdraio una donna reggeva un cartello con su scritto “Remember you paid for this”.

Io pensavo “ricordati quanto hai sognato per questo”.

Davanti ad un college sulla strada centinaia di studenti e studentesse tifavano chiedendoci dei baci. Baciarli non sarebbe stato possibile, ma ho battuto cinque finchè non ho avuto troppo male alle mani.

Al trentesimo chilometro ho pensato che mancava un’ora all’arrivo. E ho pianto. E’ durato un secondo, ma ho pianto.

Stavo vivendo l’esperienza che avevo sognato per anni, da quel sogno condiviso di sette anni fa.

E riuscivo solo a pensare a quanto stavo male.

Stavo così male che non mi sono nemmeno accorta della celeberrima HeartBreak Hill. Una salitella come altre, lunga quasi un chilometro, che nella fatica generale è passata in secondo piano.

Decine, centinaia di persone ci urlavano “You look strong” – “you rock” – “Your feet kiss the asphalt”.

Non siamo mai, mai, mai stati soli. bambini, anziani sotto a ombrelli grandi come pagode, donne e uomini urlanti. Solo per noi.

Finalmente al 37esimo siamo rientrati in città. Cinque chilometri e poi sarebbe tutto finito.

Finito il dolore, raggiunto il sogno.

Non so come le mie gambe abbiano fatto a continuare stando sotto i 5′ al chilometro. Non so come io sia riuscita ad alzare le braccia al traguardo. Non so come sia stato possibile correre per 3 ore 19 minuti e 57 secondi sotto quell’uragano di acqua, vento e sentimenti contrastanti.

Non so come, ma so che sono arrivata esattamente lì. Lì dove volevo.

I metri più lunghi sono stati quelli per raggiungere il deposito borse (circa 400), fare più o meno cinque minuti di coda scossa dai tremori, cambiarmi nell’affollata tenda femminile e farmi recuperare da Francesca.

Nella mente una gioia che sta prendendo consistenza solo ora. Nelle gambe il dolore di una gara sfinente.

Nel cuore un unico sentimento: l’amore.

Io amo la Maratona. La amo più di ogni altra distanza.

Questa è la sola gara in cui contano le gambe solo se sono direttamente attaccate al cuore.

Un grazie speciale va a Reebok Italia che mi ha supportato in questo sogno e mi continua a supportare. Alle Reebok FloatRide che non mi hanno fatto venire nemmeno una vescica e hanno condiviso con me queste 3 ore e circa 20 minuti (più l’attesa), a Degiu che ha provato ad allenarmi – infortunio a parte – a Giuseppe che mi dà sempre il motivo per andare avanti – nel bene e nel male – a Francesca, la mia fotografa e amica preferita che mi ha accompagnata, e ai miei “curatori” di fiducia, Jutta, Armando Barchi e Dok. Massarini.

E a mamma e papà che pensavano sarei morta, ma mi hanno fatta testarda 😉

Grazie

RunningCharlotte
RunningCharlotte
Perché la corsa è uno stile di vita e ad ogni passo ci fa crescere un po’ e perché non bisogna essere campioni per correre, basta mettere un passo dietro l’altro. Keep in running.
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Showing 4 comments
  • Pietro Paschino
    Rispondi

    Che emozione Carlotta! Bellissimo! Di nuovo brava, brava di cuore! 🙂

  • Lofa
    Rispondi

    Bellissimo post. E crono finale da invidia, specie in quelle condizioni meteo. Complimenti.

  • Angelo
    Rispondi

    GRANDE Carlotta, leggere il tuo racconto mi ha emozionato,BRAVA!!!….ho rivissuto emozioni di Roma 10 giorni fa!!!

  • Denis
    Rispondi

    Volevi che fosse memorabile l’hai aspettata tanto ed è stata epica. Sarà indimenticabile e tu sei stata formidabile. Tantissimi complimenti.

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