GR20 – terza tappa, da Asco a Col de Verghio
Inutile scrivere di quanto è dura questa sezione del GR20, lo sanno tutti, o quasi. Insomma, le prime tre ore le scalate, letteralmente. Nessun sentiero, solo un segno bianco e rosso sulle rocce. C’è Alice che segue il Bianconiglio ed io che seguo le tracce bianche e rosse.
Poi io sono fifona e con 50 litri di zaino sulle spalle il mio metroesessanta scarsino ne risente. Nel senso che, primo, divento automaticamente un metroecinquantacinque, in secondo luogo arrampicarmi sui sassi con una zavorra dietro che pesa il 20% del mio peso è destabilizzante.
Comunque alla fine lo sapevo bene.
Un errore da evitare.
Se portate uno zaino enorme e dovete inerpicarvi su sentieri impervi, l’accoppiata scarpe da trail + zaino necessita di un terzo (in)comodo: i bastoncini da trekking, che sosterranno parte del peso distribuendolo sulle braccia.
Io ovviamente non li ho.
Comunque, passo le prime tre ore sola, con l’adrenalina a mille e lo spiritello che sogghigna dicendomi “non ce la fai, ah ah ah non ce la fai”.
Un odiosissimo nordeuropeo di mezza età mi passa e mi deride. Cioè, dico, mi deride apertamente. Ride di me, guarda le scarpe basse e lo zainone e ride di me, osservando compiaciuto i suoi scarponi ramponabili e il suo zaino da al massimo cinque chili. (Che poi, ho capito che non ti porti la tenda e il sacco a pelo, ma se ti trovi in mezzo al nulla con il brutto tempo che fai? Io non ti deriderei per nulla).
Comunque proseguo, fino a che non mi raggiunge un ragazzo giovane dai lineamenti del centro-est Europa, Rumeno forse.
Lui non mi deride e mi aiuta.
Chiacchieriamo. Thomas vive da cinque anni in Corsica ed è Polacco. Fa l’autista di autobus e ha appena portato dei turisti ad Asco, ma avendo sette ore di libertà ha deciso di scalare il Monte Cinto.
E’ venuto qui per seguire il fratello, anche lui autista, ma il suo sogno è fare l’informatico. Mi chiedo sempre chi possa sognare mestieri così e poi per fortuna li incontro (e meno male che ci sono gli informatici).
Thomas mi porge la mano ad ogni masso, si ferma ad ogni mio sbuffo, mi aiuta. Io non sono abituata ad essere aiutata e questa volta lascio fare, scoprendo che è bello. Bello perchè è un mondo per estendere il rapporto a qualcosa di rilassato: l’uomo aiuta la donna. E’ un gesto galante e gentile. Rilassato appunto. Io che ho sempre detto “ce la faccio da sola” non sono rilassata quasi mai.
Saluto Thomas e raggiungo i miei amici militari della prima tappa. Scopro che si chiamano Kevin e Stéphane e che, mamma mia, hanno 21 e 22 anni.
Scendiamo nel vento impietoso, dalle rocce e dai sentieri, questa volta più facili (a tratti).
Arriviamo al rifugio di Tigghjettu, teoricamente fine della tappa, alle 12.30. Il rifugio è bellissimo e il gestore simpatico. Cerca in tutti i modi di farci restare (Raccontandoci che al rifugio dopo non c’è acqua e che Verghio è un colle ventosissimo) e la sua pasta al sugo di pomodoro e guanciale mi fa vacillare.
Eppure continuiamo.
Fino al secondo rifugio, alto e ventilato (ma dotato di copiose fonti d’acqua).
Pensiamo se fermarci, ma invece continuiamo e arriviamo a Col de Verghio morti di fatica.
11 ore e 22 minuti di cammino. Una fatica interiore, un massacro bellissimo. Non sono stanca, solo i muscoli urlano e urlano una parola ben distinta “CIBO”! D’altronde oggi ho mangiato quasi nulla.
Ceniamo al ristorante.
Sì, al ristorante. Che devo dire, l’idea di cucinare del riso liofilizzato oggi non fa parte di me.
Chiacchieriamo, ce la prendiamo con calma. Le telefonate importanti per rassicurare tutti e via.
Questa è la descrizione della tappa, bella, bellissima.
Ma.
La verità è che il cammino da soli non si può fare. Il cammino è fatto dalle persone che incontri sul cammino. Ciò che lo rende appassionante non è il paesaggio – magnifico – ma gli incontri lungo la via. Le mani tese che ti aiutano, le risate nel condividere il cibo. Le battute su chi ha le gambe più malridotte. Le storie di tutti noi, che si mischiano e si arricchiscono le une con le altre.
Questo è il cammino.
Grande Charlotte! !!!!