Reebok Ragnar Relay, parte prima: l’evento

Ieri, durante il viaggio di ritorno da Amburgo a Torino, lungo quasi più della Ragnar, pensavo a come raccontare questi due giorni.

A colazione, parlando con Rob (Roberto Cipollini), ho condiviso qualche concetto e qualche opinione su questa esperienza. Sono troppe le idee che mi frullano in testa per scriverle di getto come il mio solito.

Sono partita per questa gara di corsa come partissi per un viaggio. Uno dei miei, uno in cui puoi usare solo le gambe per muoverti, uno faticoso e introspettivo.

Invece è stato diverso, la mia solita solitudine ha trovato un’umanità sfaccettata ad accompagnarla.

Ho conosciuto persone nuove, ho affrontato condizioni al limite, ho patito il sonno, la fame (io…), ho guidato nel buio, visto occhi di pecore spettrali, percepito l’ansia umana intorno e ho lottato per non mollare.

E poi, ho pensato che a casa il mio letto era più comodo, che mi mancava il mio solito zaino da 20 chili con tutto dentro e soprattutto che mi mancava la mia tenda.

Sopra ogni cosa però ho corso, ritrovando la pace interiore che alle volte mi abbandona.

Ma iniziamo con calma, che con la Ragnar è difficile mantenere l’ordine delle emozioni.

Questo primo articolo parla dell’evento, perchè nell’ordine del racconto devo prima concentrarmi sulla spiegazione di cos’è questa immensa staffetta. Ne seguirà un secondo, quindi #StayTuned

La Reebok Ragnar Relay nasce nel 2004, dall’idea goliardica di Steve Hill, di suo figlio Dan e dall’amico di Dan, Tanner Bell: creare una staffetta lunga più di 180 miglia, da dividersi tra amici correndo per 24 ore consecutive.

L’obiettivo non è il semplice gesto della corsa, nè il tempo, come in quasi tutte le gare al mondo, ma piuttosto il divertimento e il piacere di condividere qualcosa di speciale.

Dopo 14 anni la Ragnar è un format che impazza negli Stati Uniti d’America.

E che dal 2017 è, finalmente, sbarcato anche da noi.

Io ho avuto la fortuna, grande, di partecipare alla seconda edizione europea in Germania, la Ragnar Wattenmeer.

In squadra siamo in 10, divisi su due pulmini Volkswagen, uno bianco e uno nero. Siamo il “Team Italy”, ma ci conosciamo poco tra tutti.

Io sono nel van nero. Siamo quattro donne ed un uomo. Povero. Nel van bianco sono in quattro uomini e una ragazza. Loro sono quelli veloci, noi quelli “simpa”.

Sapendo come sono fatta forse dovevo stare nell’altro, non perchè io sia veloce, ma perchè sono una runner imbruttita, in fondo. Mi piace mettermi lì, calcolare passi e tempi, provare a scendere di un secondo al chilometro… Mentre penso a queste cose, incontro Gianni, del van bianco, torinese e fortissimo. Iniziamo a parlare di maratona. Lui ha un personale di 2h32′ e sta preparando New York. Io gli racconto la mia voglia di correre a Berlino tra poco.

Nelle nostre parole innamorate dei 42km, le mie certezze trovano ancora più fondamento. Sono imbruttita-vera.

Siamo in hotel per il brief, tutti e dieci. Iniziamo a conoscerci e a chiacchierare.

Io mi sento tranquilla come se non stessi per partire per 254 km di gara. Manu, Alessandra e Irene sono “sul pezzo” molto più di me. Guardano mappe, leggono informazioni.

Io penso che fuori piove e la pioggia sta sciogliendo i colori fluo con i quali avevamo decorato il nostro van di fiamme e scritte.

Guardiamo le mappe delle tappe, mi concentro anche io. Correremo con la pioggia e senza il sole per molti tratti. Le ragazze studiano i percorsi e pongono domande. Io non vedo l’ora di correre la notte. Non ho paura di perdermi. Non mi importa nulla di perdermi, in realtà. 

Mi pare brutto ostentare sicurezza e taccio. Vorrei dire loro quanto è magico correre senza vedere. Quante sensazioni nuove può far emergere il buio.

Andiamo alla partenza e la prima a correre è Alessandra. E’ in stato di ansia, lo vedo chiaramente. Io sono sempre in ansia alle partenze e vorrei dirle quanto è normale. Cerca la compagnia, ma l’unica cura è il silenzio.

Questa è la sua prima gara impegnativa e vuole fare bene. Per se stessa, ma soprattutto per noi. Una staffetta ha questa particolarità: moltiplica le aspettative, perchè si corre anche per gli altri, per far bene agli altri.

Parte e sorride. Ale desidera quel sorriso e lo esaspera. Mi sento dentro di lei. Si chiama Empatia e in un team è la componente fondamentale.

Mentre lei corre, noi ci mettiamo alla guida del van di fretta e andiamo ad aspettarla al primo cambio. Arriva sorridendo di un sorriso senza compromessi, senza riprometterselo. E’ felice e questa è la magia della corsa.

Parte Manuela, con la massa di ricci rossi chiusa nel cappuccio. Continua a piovere.

Dopo Manu tocca a me. Ho una tratta brevissima, di 5 chilometri e mezzo.

Arrivati al cambio mi scaldo. Voglio andare forte, ne ho proprio voglia. Voglio sentire una stanchezza incredibile nei muscoli, voglio sentire il dolore della fatica. E voglio fare bene per noi.

Corro bene sul lungomare, tra turisti, passeggini e magnifiche ville. Mi figuro di essere negli Hamptons, dove non sono mai stata. Case di legno dai minuscoli giardini fioriti, il mare, che poi è il fiume Elba, che bagna spiagge semi-deserte. La pace.

Non mi do tregua e arrivo al cambio così stralunata che mentre passo il testimone ad Irene sono confusa. Il testimone cade. Ridiamo.

Io finalmente mi sciolgo.

La prossima tappa la correremo di notte.

Nel van iniziano i racconti dei nostri timori. E se ci perdiamo? E se qualche malintenzionato ci importuna? E gli animali? E com’è correre al buio?

Io amo correre al buio e aspetto con ansia. Taccio per la seconda. Non voglio fare quella che sa sempre tutto, divento noiosa.

D’altronde questa è la “gara delle prime volte” per tutti noi.

La prima volta che Manu corre di notte. La prima volta che Ale passa un testimone. La prima volta che Irene corre tre volte in 24 ore. La prima volta che Roberto corre 10km alle 2 di notte.

La prima volta che io corro senza un’idea di classifica.

Quando Sara, dell’altro van deve dare il cambio ad Ale, non arriva. Si è persa e non ha il telefono. Conosco Sara di vista e so bene che non è una da panico, quindi non mi preoccupo. Io sto patendo il sonno come mio solito e sto cercando di chiudere gli occhi accoccolata sul sedile dietro, aspettando gli altri arrivare.

Quando finalmente arrivano Manu ha gli occhi sbarrati. Il terrore di perdersi nel buio la invade e noi le promettiamo di andarla a cercare spesso sul percorso.

La notte è fonda e pioviggina. Alessandra è partita illuminata come un albero di Natale. Andiamo al primo punto in cui la strada rintraccia il sentiero dove corre.

Quando la incrociamo sta benissimo. Sorride e corre leggera. Lei è il capitano della squadra, deve ostentare sicurezza e tranquillizzare gli altri, ma si nota che è veramente serena. Corre in pace con quello che la circonda.

Manu si rilassa e parte dopo Ale. Quando arriva a darmi il cambio sta bene, è rasserenata, i capelli rosso fuoco legati, il trucco leggermente colato per la pioggia. Mi passa il testimone.

Correre al buio è una sensazione incredibile, mistica forse.

Sono emozionata, mi aspettano 8km da correre lentamente appena sotto ai 5’/km, un sentiero che non incrocia strade, nè case. A destra prati e pecore. A sinistra lo sciabordìo del mare.

Questo percorso, che costeggia il delta dell’Elba, è disseminato di fattorie e pecore. Al buio la lampada frontale illumina centinaia di paia di occhi rotondi che corrono via spaventati alle volte e altre volte ti fissano increduli.

Sento l’aria di mare che mi accarezza, ne odo il suono leggero e placido, ma non lo vedo, il mare. So che c’è e mi dona una sensazione incredibile di pace. Sono così felice che arriva il settimo chilometro e vorrei continuare ancora per venti.

Non so spiegare appieno la sensazione, ma è come se una forza invisibile mi tenesse il cuore tra le mani, lo sollevasse leggermente per non farmene sentire il peso e lo riscaldasse tra i palmi. Siamo io e queste mani tiepide, dalle dita gentili, che accarezzano cuore e anima mentre corro. Non sento il terreno sbattuto dalle suole. Non sento il sudore. Sciolgo i capelli e respiro a fondo.

Le mani sul mio cuore rimangono lì, tiepide. Solide.

Arrivo a dare il cambio, la magia svanisce. Irene parte, agguerrita dietro ai suoi occhi verde chiaro. Questa ragazza dai tratti morbidi e gentili ha una guerriera nascosta dentro.

Io ritiro le mani dal cuore, le stringo tra le mie e le saluto, rimandandole alla prossima tappa.

La tappa successiva è lunghissima e diluvia.

Frazione dopo frazione ci avviciniamo alla fine di questa avventura.

Quando ritroviamo Alessandra alla sua terza frazione, albeggia.

La luce è stupenda sull’orizzonte verde e umido dalla pioggia. Stiamo attraversando una zona disseminata di pale eoliche e centrali elettriche.

Con il van costeggiamo distese di cavoli. Il Cavolo per me è un ortaggio simbolico. Rappresenta l’antitesi del romanticismo. Due volte nella vita ho ricevuto un cavolo come regalo. La prima era un dono ironico e simboleggiava un’unione senza compromessi.

La seconda volta era il simbolo del compromesso stesso. Un cavolo donato al posto di un fiore per suggellare la teoria della relatività, in cui basta chiamare le cose con nomi diversi per cambiarne l’essenza.

Qui le distese di cespi verde scuro mi fanno sorridere. Vorrei sdraiarmi nella terra tra di loro e prendere la luce di quest’alba nuova.

Quando Manuela mi passa il testimone so che i 16km che ho davanti saranno duri. All’orizzonte nuvole scure mostrano scrosci di acqua impietosa.

Corro lungo i canali e per sette chilometri tengo il passo deciso e atletico che mi ero prefissata.

Dopodichè la grandine e il vento iniziano a sbattermisi in viso con una violenza che non mi permette di vedere la strada. Sono completamente sola e grido. Veramente grido. Mamma mi ha detto che gli Angeli vanno invocati e io scelgo l’Arcangelo Raffaele. Mi piace Raffaele come nome.

Gli chiedo di farlo smettere. Fa male. I chicchi rimbalzano a terra piccoli e impietosi. Immagino facciano la stessa cosa sul mio viso.

Chiudo gli occhi e corro. Raffaele fa smettere qualche minuto, ma poi la bufera riprende. Chiudere gli occhi mi protegge. Mi fa ritornare in quella condizione mentale della notte precedente. Cerco le mani che mi accolgono il cuore. 

Non trovo mani sul cuore, ma una forza di volontà da leonessa.

In lontananza vedo il nostro van. Mi aspettano. Mi accompagnano per un tratto. Sono felice di vederli. Supero qualche runner frastornato dalla fatica. Un ragazzo si spaventa nel vedermi e urla. Lo passo chiedendogli perdono.

Arrivo e mi mettono in mano una medaglia: ho corso la “Reebok Leg”, la frazione più lunga.

Sulla medaglia c’è un cavolo. Il terzo cavolo della mia vita. Questa volta non piango nel riceverlo.

Irene parte con la stessa grinta di sempre. Poi Rob. Poi gli altri.

Ci raduniamo insieme per aspettare l’ultima tappa.

All’arrivo siamo felici. Le spiagge del Mare del Nord, con i suoi sabbioni infiniti, ci accolgono al sole. Il primo vero sole della gara.

Siamo stanchi, frastornati, sporchi. Siamo felici.

Siamo insieme.

Abbiamo concluso la nostra gara in circa 21 ore, perdendoci, ritrovandoci, superandoci, affrontando ansie e paure.

La mia paura?

No, non avevo paura di correre 30km in 24 ore. Per me è normale. La mia paura è di stare in gruppo, di correre in gruppo.

Io sono una runner solitaria. La mia sfida è la condivisione.

E l’ho vinta. E’ stato bellissimo.

Ma questo ve lo racconto nel prossimo articolo.

To be continued…

RunningCharlotte
RunningCharlotte
Perché la corsa è uno stile di vita e ad ogni passo ci fa crescere un po’ e perché non bisogna essere campioni per correre, basta mettere un passo dietro l’altro. Keep in running.
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